venerdì 25 maggio 2007

L'antitesi amico-nemico negli scritti antisemiti di Carl Schmitt


La tesi di Carlo Angelino. Il coinvolgimento del giurista tedesco nel regime hitleriano sarebbe stata, dice lo studioso, un conseguente approdo del suo percorso di pensiero. Un saggio illuminante. È titolato «La scienza giuridica tedesca in lotta contro lo spirito ebraico», venne scritto nel 1936 e lo pubblica, con altri due testi, il Melangolo
di Marco Pacioni, da "il manifesto", mercoledì 23 maggio 2007


Se quella di «nemico» è una categoria fondamentale alla mitogenesi del nazismo - come dicono Philippe Lacoue-Labarthe e Jean-Luc Nancy nel loro libro Il mito nazi (il melangolo, 1992) - e se ad essa è stata accordata tanta importanza nell'individuazione dell'essenza del «politico» attraverso la ricezione di Carl Schmitt che vi ha insistito per lunga parte della sua carriera di giurista, può essere interessante vedere l'utilizzo particolare che lo stesso Schmitt ne fa in alcuni scritti editi da Carlo Angelino sotto il titolo Carl Schmitt sommo giurista del Führer. Testi antisemiti (1933-1936) anch'essi del melangolo (pp. 40, euro 11,00). Già da tempo impegnato a curare testi di e su Schmitt che riguardano il periodo nazista (tra i quali è importante quello di Yves Charles Zarka, Un dettaglio nazi nel pensiero di Schmitt, il melangolo, 2005) Angelino ha maturato una tesi ben precisa secondo la quale il coinvolgimento del giurista nel regime hitleriano era, e in parte ha continuato ad essere, una esigenza conseguente al percorso del suo pensiero. Lungo questa proposta interpretativa, il terzo dei tre scritti che vengono presentati al pubblico italiano, La scienza giuridica tedesca in lotta contro lo spirito ebraico del 1936 (gli altri due sono rispettivamente: Gli intellettuali tedeschi del 1933 e Il Führer custode del diritto del 1934) gioca un ruolo molto importante per comprendere il grado di coinvolgimento del pensiero di Schmitt nel nazismo. Anzitutto perché il nemico di cui si parla in queste pagine va oltre la nota dicotomia amico/nemico applicabile alle situazioni più disparate e assume, invece, attributi specifici. In questione sono gli ebrei, non identificabili con un «nemico interno» qualunque, relativo a un qualsiasi momento storico, bensì fatti coincidere con un nemico non relativizzabile, che mai potrà essere guardato senza ostilità anche se le circostanze cambiassero. Scrive Schmitt: «non abbiamo alcun accesso alla più intima essenza degli ebrei. Noi conosciamo solo il loro rapporto negativo e sproporzionato nei nostri confronti. Chi ha compreso questa verità una volta per tutte sa che cos'è una razza». Più che una connotazione politica, in questi scritti, l'ebreo assume quella che Zarka ha definito di «nemico sostanziale»: configura un nuovo tipo, diverso da quello proprio alla concezione relativistica esposta nel famoso saggio Il concetto di politico del 1932, nel quale Schmitt scriveva: «la distinzione amico-nemico non significa che un popolo debba essere per l'eternità nemico di un altro, o che la neutralità non sia possibile». Nello scritto del 1936 l'ebraicità assume la fisionomia di un'inimicizia che non ha bisogno del suo contrario per definirsi: è infatti una categoria eccezionale, oggetto della scienza razziale e giuridica. È un fatto, continua Schmitt, «decisivo per la dottrina della razza (che) può essere posto alla base del più ampio lavoro della scienza giuridica». L'eccezionalità - altra categoria fondamentale per Schmitt - sta nella «strana polarità di caos ebraico e legalità ebraica, di nichilismo anarchico e normativismo positivistico, di grossolano materialismo sensualistico e moralismo astratto». Dalla descrizione di Schmitt emerge la preoccupazione circa le capacità di mediazione degli ebrei e il rischio di invalidare così la polarità amico/nemico sulla quale si fonda gran parte della sua teoria. Posto in relazione agli altri due che lo precedono, proprio lo scritto antisemita di Schmitt rivela un altro modo di considerare il rapporto amico/nemico e, più in generale dice molto anche sull'orientamento, basato su antitesi, attraverso cui Schmitt enuclea le formule del suo pensiero.A ben vedere in Schmitt l'antitesi non costituisce una dicotomia pronta a rimanere tale e dunque, per questo, a fungere essa stessa da fondamento - né tanto meno raggiunge il punto intermedio di una sintesi, ma al contrario è destinata a estinguersi nello stesso momento in cui viene individuata. Le note coppie quali amico/nemico, giuridico/politico e legale/legittimo non individuano dicotomie ulteriormente irriducibili, bensì servono a conferire identità a uno e uno solo dei due termini, attraverso l'altro, in modo tale che di quest'ultimo poi non rimanga traccia. Se questo è vero, si capisce allora che a Schmitt non interessa tanto enucleare ciò che è proprio del «politico», cioè la pratica e la teoria del conflitto, ma riportare quest'ultimo all'interno di una dimensione assoluta, in una sorta di totalitarismo giuridico nel quale il contrasto non sussiste più e ogni eccezione è ridotta immediatamente a norma. Non è un caso che tale concezione totalitaria emerga chiaramente già nella Teologia politica del 1922 nel momento in cui Schmitt sostiene che «tutti i concetti decisivi della moderna dottrina dello Stato sono concetti teologici secolarizzati». L'eccezione ebraica e la conseguente dottrina della razza possono essere interpretate come il passo ulteriore che trasforma la teologia secolarizzata in totalitarismo giuridico. Nel Führer custode del diritto il sogno di Schmitt di uno stato che non abbia più eccezioni e nel quale non ci sia più separazione fra politica e diritto è espresso in modo chiaro nel momento in cui descrive il führeprinzip: «L'azione del Führer è un genuino atto di giurisdizione. Non è l'azione di un dittatore repubblicano, che in un momento di assenza del diritto, mentre la legge per un attimo chiude gli occhi, crea fatti compiuti». Accanto alla categoria di biopolitica, spesso menzionata quando gli studiosi moderni fanno riferimento a Schmitt (un esempio è rapresentato in Italia da Giorgio Agamben), forse bisognerebbe porre anche quella di «bio-diritto»: singolare ma significativo rovesciamento del diritto alla vita che, come tale, sembra attingere senso dalla morte. Se si leggesse Schmitt seguendo questa strada, si vedrebbe che molte delle sue qualità di giurista capace di classificazioni essenziali, in parte valide per fotografare anche la situazione attuale, si risolvono contemporaneamente in un atto d'accusa al teorico del nazionalsocialismo. Ne deriva il fatto che inquietante non è più tanto l'affinità di Schmitt al nazismo, ma, come ha mostrato Agamben, l'evidenza per cui anche sotto le spoglie della moderna democrazia e dello stato di diritto nicchiano germi totalitari.